Anastasia Gilardi, La chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio 

             
Riduzione del testo di accompagnamento alla ricerca storica del 2008 di proprietà del consiglio parrocchiale,
              pubblicata con qualche variante nel Bollettino parrocchiale.

La parrocchiale di Castello, per coerenza stilistica, qualità, quantità e stato di conservazione primeggia con poche altre, tra tutte le pur numerose del Ticino e delle regioni vicine. Infatti in molti se ne sono occupati negli ultimi cento anni e scriverne una nuova breve storia è oggi un compito arduo. Proponiamo invece una “passeggiata” nell’edificio, facendo scorrere l’occhio sulle opere, ricordando almeno gli interventi più importanti documentati.

1 Cosa c’era prima
   Quanti edifici abbiano preceduto l’attuale è difficile dirlo; sicuramente nel 1270 c’era almeno una cappella; d’altronde non era ancora sorta la parrocchia, e Castel San Pietro dipendeva da Balerna. Nel 1578 c’era una chiesetta ad aula unica di tipo romanico, con il coro “in rovina”, una sola piccola cappella laterale della Madonna e una di San Rocco forse all’esterno. Già nel 1582 si era rifatta quasi tutta la chiesa, che nel 1595 ha tre navate, le cappelle della Madonna e dei santi Rocco e Defendente e una terza in costruzione; si era eretto anche il campanile. Nel 1611 arriva da Roma la pala d’altare, che oggi è nella chiesa di Obino; quattro anni dopo si chiama Domenico Caresana (solo ora lo si sa) ad affrescare il coro, che poi risulta anche stuccato con ricchezza. Nel 1626 nasce la parrocchia, separandosi da Balerna. Atri lavori importanti una decina d’anni dopo: Pietro e Francesco Pozzi di Valsolda dipingono alcune figure in chiesa. 
 
Arriviamo al 1670 circa.

2 Facciata
   La facciata (con i colori originali, ma le tinte moderne, piatte e spente), è opera dello stuccatore Francesco Pozzi, di poco precedente il 1759. Il gioco di contrappunti tra alto e basso, sporgente e rientrante, accoppiato e semplice, curvo e rettilineo è talvolta prevedibile come l’andamento ritmico di certe canzoni gradevoli ma non geniali.
   Sappiamo che nel 1706 il bravo architetto Giovan Pietro Magni erige aderente alla facciata l’ossario «elegante e grazioso nelle linee», distrutto forse nel 1857 durante l’edificazione della scuola. Nel 1912 l’architetto Brazzola “restaurò” la facciata e collocò nella nicchia la statua di San Pietro
   Da ricordare, almeno, nell’abside, le finestre più alte con riccioli e volute di stucco.

3 La chiesa attuale
   Nonostante la chiesa cinquecentesca fosse in discrete condizioni, ben ornata e sufficientemente grande, negli anni Settanta del Seicento i parrocchiani decidono di volerne una nuova: e litigano. Al punto che devono intervenire il vescovo e il landfogto che infine approvano (e impongono) un progetto dell’architetto Agostino Silva, il quale integrò i quattro pilastri che erano già stati costruiti. La struttura della navata principale con le quattro cappelle laterali sembra essere stata grossomodo rispettata nell’esecuzione del progetto, invece il coro ora è molto più lungo, terminando con un’abside semicircolare e non più quadrata. Lo stuccatore Francesco Pozzi ne sorvegliò i lavori tra il 1756 e il 1759, modificando il progetto originale.
   Entriamo, dunque, e superata la bussola lignea settecentesca più volte aggiustata e riassestata, posiamo il piede sul pavimento marmoreo del 1952, fatto in accordo con quello del presbiterio eseguito nel 1946 con la disapprovazione della commissione per l’arte sacra. Diamo un’occhiata a una delle due acquasantiere settecentesche in marmo d’Arzo e alziamo gli occhi.

4 La volta sopra la navata
   La volta a botte della navata è divisa in due campate con centrali medaglioni dipinti e gli spicchi in cui si leggono i cartigli pertinenti alle cappelle sottostanti. Nella prima campata sono di stucco gli ornati nei triangoli ai lati degli spicchi e intorno all’affresco raffigurante i Santi Pietro e Paolo; nella lunetta di sinistra la finestra è finta. Nella seconda invece compaiono i Santi Eusebio e Vittore; qui le coppie di angioletti negli spicchi sono di stucco, di mani diverse. Il resto è dipinto, quasi sicuramente da Silvio Gilardi nel 1912. Gli stucchi dovrebbero essere di Antonio Carabelli, pagato nel 1686-87, ma con l’intervento di qualche collega dallo stile un poco differente. Anche i due dipinti potrebbero avere autori diversi, ma per i Santi Pietro e Paolo si ipotizza l’intervento di Pietro Bianchi, attivo anche altrove in chiesa. 
   Le due coppie di profeti in stucco sopra gli archi delle prime due cappelle (Geremia e Isaia a destra, Ezechiele e Daniele di fronte, dimostrano sicurezza e vigore nel trattamento delle anatomie e nei panneggi. Potrebbero far parte della campagna di decorazione condotta da Agostino Silva, come della stessa epoca saranno anche i due eleganti angeli tubicini sopra l’arco maggiore.
   Voltiamoci ora indietro e osserviamo sopra di noi campeggiare il bell’organo dal frontale di legno naturale riccamente intagliato e la cantoria dal profilo mistilineo dipinta, restaurata nel 1912. Probabilmente fu lo stuccatore Francesco Pozzi a disegnare la struttura di uno e dell’altra, e l’esecuzione fu affidata a Giuseppe Carabelli, pagato nel 1771. Lo strumento ha svelato durante i restauri del 1985 (Mascioni di Cuvio) la firma di Andrea e Giuseppe Serassi di Bergamo. Dietro si nasconde un affresco rappresentante Sant’Eusebio firmato dallo sconosciuto pittore di Tremona Venanzio Isidoro Rusconi, e datato «174(…)».

5 Le cappelle laterali di destra
   La prima cappella è dedicata alle Anime dei giustiziati estratte dalle pene del Purgatorio. I temi della compassione e del perdono interessano tutti i dipinti e alcuni bassorilievi, a partire dalla piccola Madonna della Misericordia nella nicchia, forse ancora quella seicentesca. Gli stucchi sulla volta sono di Pietro Pozzi, uno stuccatore per ora sconosciuto, e di Carlo Francesco Moresco (o Moreschi) di Somazzo, che vi lavorarono tra il 1722 e il 1724. le figure degli angeli, per quanto convenzionali, sono vivaci e convincenti, specialmente le incantevoli testine infantili. Lo scorrere continuamente variato e contrapposto delle cornici prevalentemente curvilinee evoca un discorso coerente ed articolato come lo svolgersi di un tema musicale barocco, pur senza eccessive bizzarrie e rivolgimenti. I dipinti appaiono meno convincenti, le figure un poco pesanti e i colori fin troppo semplificati, quasi poveri.
   La cappella fu consacrata nel 1727, dopo aver collocato la balaustra marmorea proveniente da Arzo. Invece il bel paliotto della prima metà del Settecentesco proviene dalla chiesa di San Pietro e fu qui trasferito nel 1948. Qui è ospitato uno dei due spettacolari reliquiari lignei dorati, probabilmente fatti nel 1732 da Giuseppe Albino Carabelli.
   Torniamo nel corridoio della navata, attraversando i banchi di noce disegnati e fatti tra il 1950 e il ‘52 rielaborando un disegno di Arturo Pizzi per l’ornato.
   La nicchia del pilastro, ora poco profonda, ospita un confessionale, in origine quello di Giuseppe Carabelli del 1769 e venduto nel 1952. Oggi ci sono i frontali ricomposti di quelli fatti nel 1941 da Erennio Bernasconi, con la grata di bronzo disegnata da Pietro Tavani. 
   Diamo un’occhiata alle telette della Via Crucis. La prima documentata nel 1812 era su carta. Le attuali, settecentesche si direbbe, furono acquistate nel 1963 dalla parrocchia della Visitazione di Pero (vicino a Milano).
   Alzando gli occhi troviamo una delle opere di maggior successo della chiesa: La samaritana al pozzo, dipinta nel 1776 da Domenico Pozzi, il figlio pittore dello stuccatore e architetto Francesco. Quasi sicuramente fu donata alla chiesa, così che fu più facile esporre quella che appare una vera e propria esaltazione del nome familiare (il pozzo in primo piano), con la seducente Samaritana ben esibita tra suggestive rovine classicheggianti, sullo sfondo di un rosato paesaggio serale.
   Ancora più in alto si riesce appena a vedere uno dei sei bassorilievi in terracotta con Storie di Sant’Eusebio; altri tre, come questo, dipinti in finto bronzo, stanno di fronte e nei pilastri di accesso al coro, mentre gli ultimi due sono nascosti dall’organo e sono rimasti al naturale. Sono citati (ma quattro solo) per la prima volta nell’inventario del 1748.
   Passiamo ora alla seconda cappella, dedicata alla Madonna Assunta e ricchissima di opere, «olezzante maestà» già nel 1685, quando ancora sia l’altare che la nicchia per la statua erano da terminare. E infatti l’anno seguente arriva da Como il prezioso simulacro, sul cui basamento l’Hoffmann lesse la scritta «P.L.V. 10 Aple 1676», interpretata come «Pietro Lironi Vacallensis [fecit], 10 Aprile 1676». Il gruppo è ora pesantemente ridipinto ed eccessivamente dorato, per cui è difficile valutarlo. La nicchia (che un tempo aveva la sua vetrata) è inserita nello spettacolare apparato dell’altare, con dipinti, architetture e sculture, intrecciati e composti con disinvolta maestria, ad esaltare la figura di Maria. Sia le statue di figura sia gran parte degli ornati in stucco sono ragionevolmente attribuite all’attività matura di Agostino Silva (non senza il prevedibile intervento di diversi collaboratori). Nelle strette pareti laterali si fronteggiano due dipinti su tela del primo Settecento: a destra La visitazione e a sinistra La presentazione di Maria al tempio. Paolo Vanoli (che ringrazio) mi suggerisce l’attribuzione al comasco Pietro Bianchi, attivo tra il 1680 e il 1720, che spesso collaborò con il Silva e autore riconosciuto da Simonetta Coppa degli affreschi nella cappella del Crocefisso, oltre che, probabilmente, di uno dei due medaglioni nella volta. Tanto disinvolto è nell’affresco, quanto poco a suo agio si dimostra nell’olio.
   L’altare è stato rifatto nel 1951-52 dalla ditta di marmorini “MaGa” di Capolago, su progetto del 1950 dell’architetto Giacomo Alberti; il tabernacolo ha una portina del 1954 disegnata da Onorato Ferrari di Ponte di Legno. Invece lo zoccolo in marmi colorati è stato fatto dalla ditta bergamasca di Carlo Comana. La balaustra era già posata nel 1703 e conserva il suo cancelletto originale.
   Prima di accedere al presbiterio soffermiamoci davanti alla porta che conduce in sagrestia, sopra la quale è ospitato il dipinto su tela con Il sacrificio della figlia di Jefte, a cui faceva riscontro dall’altro lato Il sacrificio di Isacco, figlio di Abramo, nello spazio ora occupato dal pulpito con cui ha scambiato la collocazione, trovandosi ora nel pilastro tra le due cappelle di sinistra. Sono opere pagate nel 1785 al quasi sconosciuto pittore locale Angelo Pozzi, registrato in poche altre occasioni, ma – a giudicare da questi due dipinti – più che discreto artista, legato preferibilmente alla cultura tardo barocca di Giuseppe Petrini ancora in questi anni.
  
Il commovente tema sacrificale era una sorta di entrata al presbiterio progettato dal Pozzi prima del 1759, invece glorioso.

6 Presbiterio e coro
   In primo luogo osserviamo la spettacolare balaustra marmorea, opera documentata di Giacomo Pellegatta da Viggiù nel 1765. E’ un’opera progettata ed eseguita con quella sicurezza e libertà d’espressione tipiche dell’ultimo Barocco, come dimostrano il profilo mistilineo, l’uso in contrasto di marmi diversi, la vivacità degli ornati vegetali, la proporzioni armoniche e le forme ben definite, fino al culmine sottilmente ironico delle testine d’angelo sporgenti. Sgradevole conferma della loro qualità è il fatto che una è stata rubata nel 1975. Il cancelletto in ferro è stato eseguito nel 1957 da Mario Sampietro, in Como.
   Nel 1945 si incarica l’architetto Alberti di progettare un pavimento in marmo, eseguito dalla ditta “MaGa” di Capolago.
   L’altare marmoreo, pur altrettanto ricco nella struttura e decorazione, appare sostanzialmente più convenzionale rispetto alla balaustra; è opera, posata nel 1759, del comasco Antonio Monzini. Nel 1783 si paga lo scultore Francesco Carabelli (1737-1798) per «li putini e portina della Custodia» ovvero del tabernacolo. Il Salvatore in legno dorato sopra il ciborio marmoreo dovrebbe essere di Donato Carabelli, del 1828. Gli angeli lignei dorati che oggi si vedono sull’ultimo gradino sono ciò che resta dell’altare seicentesco. Diversi altri interventi si registrano nel Novecento.
   Girando intorno all’altare alziamo gli occhi verso la tela rappresentante La lapidazione di Sant’Eusebio, inserita nella grandiosa cornice di stucco sulla concava parete di fondo del coro; è probabile che l’autore sia da ricercarsi nell’ambito locale entro la seconda metà del Settecento.
   Le vetrate, ormai mancanti di alcune parti, dichiarano la loro esecuzione al 1934 sotto la figura di San Paolo a destra, e a sinistra, sotto San Pietro, l’esecutore: Lorenzo Frisch di Milano.
   Ammiriamo da vicino la vitalità delle forme astratte con cui Francesco Pozzi ha modellato le volute sfrangiate sotto le mensole che sostengono le colonne in marmo d’Arzo ai fianchi della tela: sembrano eseguite di getto, con un solo colpo attentamente vibrato di spatola, mentre evidentemente hanno richiesto una rigorosa progettazione e un’altrettanta controllata esecuzione per rendere con efficacia l’impressione di spontaneità naturalistica.
  
L’insieme delle cornici e dei fondi, nelle pareti e nelle volte è talmente ricco e variegato da essere indescrivibile; e i confronti con altre opere, sue e di altri, richiederebbe da solo un saggio a sé stante. Basti ricordare ancora una volta come l’assonanza stilistica tra gli stucchi e i dipinti non suggerisca soltanto una contemporaneità d’esecuzione ma anche un accordo programmatico di poetica espressiva tra i due artisti, che devono essere andati ben oltre la semplice collaborazione o la generica reciproca stima tra colleghi intelligenti. La fama del pittore Carlo Innocenzo Carloni ai suoi tempi fu tra le prime in Europa, e in proporzione i suoi compensi e i suoi impegni. Il suo primo intervento, nel 1756, comprese l’esecuzione a fresco de La Trinità in gloria o l’esaltazione della croce nella volta più vasta del presbiterio, con agli angoli i Quattro evangelisti in stucco; due anni dopo nel catino dell’abside gli Angeli in adorazione del Santissimo Sacramento. Dell’anno successivo, il 1759, è il contratto per l’esecuzione dei dipinti a olio sulle pareti laterali: a destra Il battesimo di Sant’Eusebio e a sinistra Il concilio di Milano.
   Possiamo ancora ricordare che le finestre in comunicazione con la sagrestia sono state aperte nel 1957, dopo una discussione iniziata nel ‘49; il progetto dell’architetto Cino Chiesa ha rispettato il profilo della decorazione originaria, pressoché simmetrica nella parete di fronte.

7 Sagrestia
   Attraverso queste aperture diamo giusto un’occhiata alla sagrestia, di solito giustamente inaccessibile. Il bell’armadio intagliato che occupa tutta la parete di fondo verso est (prima del 1748); non è improbabile ipotizzare l’intervento (almeno negli ornati) di un qualche membro della famiglia Carabelli. Sulla parete opposta è conservata la statua della Madonna del Rosario, del primo Settecento. Nel 1830 sopra la sagrestia venne costruito un “oratorio” per impartire il catechismo ai ragazzi e per uso della confraternita, ora ridotto a magazzino.

8 Le cappelle laterali di sinistra
   Usciamo dal presbiterio e contempliamo ancora un altro insieme di opere di straordinaria qualità.
   Nel 1687, con la cappella ancora in parte rustica, si registra il pagamento agli uomini che hanno portato da Como il Crocefisso. Questa scultura in legno policromo si “porta dietro” una leggenda da duecento anni almeno: che sia stata portata da un Carabelli, un frate, dalla “Spagna” e donata alla chiesa. Nulla lo conferma, salvo una qualche affinità stilistica con la scultura iberica seicentesca, gusto che – però – era presente anche in Lombardia e in Italia meridionale. Sappiamo che almeno un artista tra i Carabelli fu attivo in Portogallo, ma l’appiglio storico è troppo debole, mentre appare assai più credibile una notizia più recente, sebbene anch’essa non confermata da documenti originali: nel 1939, rimuovendo la vetrata che chiudeva la nicchia, pare si fosse rinvenuto un foglio in cui era scritto che fu l’abate Turconi (Ludovico) a far avere l’opera alla parrocchia. Quel che è certo è che costui nel 1690 fornì in prestito il denaro per pagare sia il pittore, sia lo stuccatore che ornarono la cappella. Quest’ultimo è un altro celebre artista della Valle d’Intelvi: Giovan Battista Barberini. Il maestro era ormai anziano e credo abbia concentrato le sue energie non tanto nell’invenzione compositiva dell’opera (ispirata all’opera pittorica di Guido Reni), piuttosto convenzionale, quanto in due aspetti: nella resa dei sentimenti e nella tensione espressiva del modellato sia dei corpi, sia dei panneggi.
  
Al di sopra del cornicione il clima espressivo dolente della parte inferiore, cambia. I due ovati nella volta (Cristo cade sotto la croce e L’orazione nell’orto a sinistra), sono come annidati sotto ad un’esuberante cimasa prospettica ricca come un catalogo dei motivi decorativi barocchi, fino alla vibrante conchiglia colorata che sembra appena sbocciata. Questa festosità ben si addice al tema glorioso del dipinto: L’ascensione di Cristo, sebbene impugnando il Signore fortemente scorciato il vessillo con la croce potrebbe anche essere – più logicamente, considerando il soggetto della cappella – La resurrezione. Nei registri compaiono i pagamenti nel 1689 ad un pittore «Gio. Pietro» di Como che, abbiamo già detto, è stato identificato in Pietro Bianchi.
   Torniamo alle pareti laterali per osservare i due dipinti su tela Cristo incornato di spine e Cristo flagellato a destra; sono di Domenico Pozzi (l’autore della Samaritana), che nel 1785 ricevette otto zecchini dalla comunità, più come ringraziamento simbolico che per pagamento. Si tratta di due opere relativamente mature, nelle quali sono evidentemente applicati i principi neoclassici della semplicità compositiva, della contenuta espressione drammatica, della fedeltà all’anatomia naturalistica.
   L’altare settecentesco, pur avendo anch’esso una mensa novecentesca (si pagano i professori Roncoroni e Tavani per interventi nel 1941), ospita ancora il tabernacolo fatto con la sorveglianza di Francesco Pozzi nel 1780. L’ultimo pagamento per la balaustra è del 1746, eseguita rispettando il suggerimento dei visitatori vescovili a farla conforme a quella della cappella di fronte. Anche questa cappella fu restaurata nel 1906, e poi ancora si registrano parecchi interventi successivi perché con una certa regolarità si staccava il Crocefisso dalla nicchia e si allestivano altari posticci per esporlo alla venerazione dei fedeli in occasioni speciali; e ogni volta si doveva provvedere a qualche riparazione.
   A destra della cappella ora è inserito nell’angolo con quella maggiore il pulpito, che originariamente stava invece nello spazio tra quella del Crocefisso e la successiva. Dovrebbe essere ancora – benché ricostruito e in parte ridotto – quello per cui Giovanni Albino Carabelli nel 1755 esegue «le sculture», forse completando un disegno di Francesco Pozzi. Delle opere presenti nel pilastro di comunicazione con la cappella successiva abbiamo già detto sopra: del confessionale, della tela di Angelo Pozzi, del bassorilievo color bronzo.
   Siamo ora giunti davanti alla cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, l’ultima in ordine di tempo tra quelle laterali, risultando ornata solo nel 1755. 
   Presentando una struttura architettonica più ricca, rilevata e tendenzialmente concava rispetto a quella di fronte, appare più piccola e raccolta. Per questa, come anche per gli stucchi, il Martinola suggerisce l’attribuzione a Francesco Pozzi. La decorazione ha già l’eleganza raffinata dell’ultimo Rococò, caratterizzata dal fluire sinuoso ma trattenuto delle linee sulle quali si avviluppano raramente e con delicatezza naturalistici riccioli vegetali o tenerissimi angioletti che non scadono mai nel lezioso, anzi, spesso sono ombreggiati da sguardi malinconici, da cadenze di abbandono quasi triste, conseguenza di una profonda consapevolezza della fine, pur senza la tentazione decadente dell’estenuata depressione. Nella volta in basso due medaglioni mistilinei accolgono in ricche cornici gli affreschi di Angioletti con simboli e al centro Sant’Antonio in gloria, di un pittore vicino alla cultura figurativa di Carlo Innocenzo Carloni, ma più trattenuto negli scorci meno arditi e dalle intonazioni cromatiche più calde.
   Tornando all’altare sottostante osserviamo la statua lignea policroma (ridipinta nel 1931) del Santo titolare, di Giovanni Albino Carabelli. Opera discreta, in cui il santo giovanile e minuto quasi è schiacciato dalla presenza ingombrante dei tre bambini. Sulle pareti laterali, in due belle cornici di stucco con angioletti sdraiati sui frontoni delle portine sottostanti, si notano due tele ovali, rappresentanti La predica ai pesci e Sant’Antonio orante a destra, meritevoli di una più attenta considerazione.
   L’altare ora appare spoglio nel finto marmo piuttosto insignificante e probabilmente rifatto, mentre spicca la qualità del paliotto in scagliola con al centro il simbolo del Sacramento. Vi si legge la firma di Carlo (Giuseppe) Pancaldi e la data 1807, periodo questo, in cui era parroco Casimiro Pancaldi, da presumere parente dello scagliolista. E’ sicuramente un’opera di qualità, volutamente legata al gusto decorativo settecentesco. La balaustra è stata posata nel 1752.

9 Battistero
   Infine eccoci arrivati al luogo dove si entra nella comunità ecclesiastica: al battistero. Il vaso poggia su una base in marmi policromi ottenuta “riciclando” pezzi settecenteschi, forse ricavati dalla ristrutturazione degli altari. La tazza in bronzo è opera del prof. Pietro Tavani di Como, pagata – con altre diverse opere tra cui il cancelletto stesso del battistero – nel corso del 1940.
   Recuperata dai locali di deposito si può oggi ammirare sulla parete qui vicina la tela con Il battesimo di Cristo, attribuita a Francesco Torriani e datata al 1647 circa. L’opera dimostra ancora la sensibilità espressiva che caratterizza la prima maturità del pittore mendrisiense, sempre interessato alla resa commossa ma moderata dei sentimenti, accarezzando incarnati e panneggi con una luce rivelatrice, ambientando le figure tornite in un paesaggio oscuro, pervaso da luccichii quasi sonori.
   Un ottimo viatico per chi, uscendo, vuol tornare “nel mondo” non senza aver riflettuto sul senso di ciò che si è visto e capito e udito con disponibile sensibilità.

 

Arte e Terra a Castello

Associazione per il futuro del patrimonio culturale a Castel San Pietro